Ho un autentico debole per le cince. Questo gruppo di uccelli mi piace sia dal punto di vista estetico sia da quello comportamentale. Trovo i loro colori e il loro perpetuo movimento un toccasana nelle plumbee giornate invernali, quando tornano a frequentare gli alberi di pianura dopo aver passato l’estate a quote maggiori, almeno nella zona in cui vivo io.
Ma le cince sono anche tra gli uccelli più intelligenti in natura. Come sempre, è difficile dare una definizione di intelligenza, tanto nell’essere umano quanto negli animali. Nell’essere umano, per esempio, psicologi e neuroscienziati hanno individuato diversi tipi di intelligenza, la maggior parte dei quali non misurabili tramite il famigerato test del QI. Anche negli animali definire l’intelligenza è difficile, così difficile che per millenni ci siamo rifiutati anche solo di vederla e accettarla, schiavi della nostra visione antropocentrica secondo cui “nessuna scimmia ha mai scritto la Divina Commedia”.
Forse, per farla breve, si potrebbe riconosce l’intelligenza in ogni animale capace di sopravvivere e riprodursi – per migliaia, se non milioni di anni – nell’ambiente in cui vive, traendovi sostentamento, riparo e risorse. Per lo studioso del comportamento degli uccelli Louis Lefebvre della McGill University, approfondendo un po’ questa definizione, gli uccelli intelligenti fanno cose innovative, preferibilmente allo stato naturale nel loro habitat, non in cattività. E in media le specie di uccello più innovative hanno anche un cervello, in relazione alle dimensioni corporee, più grosso (Lefebvre, 1997).
Nella parte alta di questa classifica dei secchioni con le ali, dopo corvidi e pappagalli, degli autentici geni, troviamo anche i paridi, proprio la famiglia di cui fanno parte le nostre simpatiche cince. Sono celebri le cince che nel Regno Unito, presso la cittadina di Swaythling, nel 1921 impararono a togliere il tappo di cartone alle bottiglie del latte lasciate al mattino fuori dalle porte per nutrirsi della panna (Fisher, 1949). La coppia di cinciallegra che ha fatto il nido nella cassetta artificiale da me costruita, invece, ha sfruttato una fonte di cibo insolita, ma comodissima, per svezzare due nutrite covate: le api morte davanti alle arnie di uno dei miei apiari.
Insomma, l’intelligenza ha a che fare con la plasticità di comportamento, con la capacità di mutare il proprio agire per adeguarsi all’ambiente, sfruttandolo al meglio per quanto può offrire. Per fare tutto ciò, però, serve un cervello adeguato allo scopo e le cince lo hanno.
Uno studio pubblicato da Timothy Roth e Vladimir Pravosudov (2008) sui “Proceedings of the Royal Society B” ha provato a mettere in relazione le condizioni ambientali con le dimensioni di una specifica parte del cervello. Lo studio è particolarmente interessante perché i due ricercatori dell’Università del Nevada hanno scelto una sola specie di cincia, la cincia capinera (“Poecile atricapillus”), specie che vive in Nordamerica, dal Kansas fino all’Alaska.
Le cince, per sopravvivere all’inverno, devono stivare il cibo per far fronte alla cattiva stagione, nascondendo le provviste anche in migliaia di siti diversi che, poi, devono essere ritrovati. Voi sapreste nascondere 10.000 ghiande in un bosco e poi ritrovarle tutte o quasi? Le cince ne sono capaci. Ma per riuscirci gli uccelli che vivono più a nord hanno bisogno di un ippocampo più grosso e con un maggior numero di neuroni, anche il doppio rispetto a una cugina che vive a sud, come dimostrato da Roth e Pravosudov.
L’ippocampo è un’area del cervello volta a trasformare la memoria a breve termine in una a lungo termine. Se non funziona bene, come può capitare in numerose malattie neurodegenerative legate alla demenza senile, è proprio questo meccanismo a saltare, con il risultato che la persona affetta si ricorda benissimo eventi avvenuti cinquant’anni prima, ma non ricorda cosa ha mangiato a pranzo. Nella cincia, l’ippocampo svolge un ruolo determinante per la memoria spaziale: un ippocampo più grosso e con più neuroni garantisce una memoria spaziale migliore, quindi la possibilità di ricordare un maggior numero di siti di stoccaggio delle provviste e, in definitiva, più possibilità di nutrirsi durante l’inverno, sopravvivere ai rigori del clima e, la primavera successiva, riprodursi.
Le dimensioni dell’ippocampo e il numero di neuroni in esso contenuto, nelle cince, seguono un gradiente geografico lineare: più è avverso il clima, inteso come temperatura, numero delle ore di luce e copertura nevosa, maggiori saranno le dimensioni dell’ippocampo. Roth e Pravosudov chiamano questo fenomeno “ipotesi della specializzazione adattativa” e il loro studio ancora non riesce a spiegare se è tutto frutto di selezione naturale ed ereditarietà oppure di un differente uso della memoria rispetto alle cince sudiste.
I ricercatori sono giustamente prudenti, sebbene il sospetto che un ippocampo più grande e performante sia legato alla selezione dovuta all’ambiente pare un’ipotesi concreta: ci fu un tempo in cui, casualmente, una cincia nordista nacque con un ippocampo un poco più grosso delle compagne, riuscì a ricordarsi meglio dove avesse nascosto le provviste e quindi a sopravvivere, magari uscendo dall’inverno un poco più cicciotta delle compagne. Essendo più in forma riuscì a riprodursi di più o allevare una covata con più nidiacei oppure due covate, in gergo tecnico si dice che aumentò la sua fitness, il suo potenziale riproduttivo. Più pulli di quella cincia si involarono, diffondendo i loro geni con l’ippocampo più grosso, sopravvivendo di più e così via, trasmettendo di generazione in generazione i loro geni.
Con un clima più mite, come quello del sud degli Stati Uniti, le risorse di cibo sono più abbondanti e un inverno più breve e benevolo non costringe ad avere migliaia di provviste nascoste quindi, in definitiva, un tale tipo di ambiente non ha selezionato cince con un ippocampo più grosso e dispendioso: semplicemente, non serve.
Tutto ciò in un uccellino di 11-12 grammi, con un cervello dal peso di 0,6-0,7 grammi, un paio di piselli, insomma. Perché le dimensioni contano, ma fino a un certo punto, quello che fa la differenza è come lo si usa e quanto… il cervello!