Inauguro con la “stigmergia” una specie di rubrica su questa pagina, una sorta di box in cui, quando capita, cerco di spiegare al meglio parole difficili della scienza e della natura. Uno dei mantra della divulgazione scientifica, infatti, prevede che le parole considerate difficili o poco comuni dal grande pubblico siano abolite oppure, nel migliore dei casi, spiegate.
Quando scrivo cerco sempre di tenere a mente questo concetto chiave che, devo essere sincero, è un insegnamento molto utile. Quando ho iniziato a scrivere, al tempo della scuola, una persona che ora non c’è più, ma che ricordo sempre con grande affetto perché una delle poche che abbia davvero fatto qualcosa per insegnarmi il mestiere di scrivere, mi disse: “Andrea, tu scrivi bene, ma devi sempre ricordarti che non stai scrivendo un tema, ma un articolo”. Aveva ovviamente ragione. Non stavo scrivendo per dimostrare al mio prof quanto ero bravo e quanto ne sapevo, ma per farmi leggere, per comunicare qualcosa.
Ho un debito e una responsabilità enormi verso chi mi legge: mi sta dedicando del tempo nel pieno della sua vita, fossero anche solo cinque minuti. E, a maggior ragione, su un social, il posto per eccellenza in cui, dicono, la gente si scassa le balle dopo otto parole e altrettanti secondi.
Però le parole difficili esistono e a volte sono pure utili, perché consentono di racchiudere in un unico termine, magari, molte frasi sbrodolate, perifrasi, periodi articolati. Ogni tanto, insomma, ci stanno.
Quindi partiamo dalla stigmergia che, prima di tutto, va pronunciata con l’accento sulla seconda “i” e non sulla “e”, come, ignorante, facevo. La cosa che mi ha sorpreso nell’apprendere questa parola è che io sapevo perfettamente ciò che va a indicare, ma ignoravo che quel qualcosa si chiamasse così. L’ho scoperto leggendo il libro di Francesca Buoninconti, «Senti chi parla», di cui ho scritto una recensione per il prossimo numero di «Sapere», leggeteli entrambi.
La stigmergia non è altro che un modo di comunicare proprio, soprattutto, degli insetti sociali, come api, formiche e termiti. È una forma di comunicazione che prevede una modificazione ambientale: l’ape bottina un fiore e ne succhia il nettare e, per evitare che un’altra ape perda tempo a bottinare quel fiore scarico di nettare, lascia un puff, uno spruzzetto di feromone che è come un cartello: “Sold out”, nettare finito. Con le api la cosa eccezionale è che sono in grado di lasciare un puff che persiste per il giusto tempo impiegato dal fiore per ricaricarsi di nettare, per poi scomparire.
Con le formiche avviene qualcosa di simile, l’ho appreso leggendo i libri su questi imenotteri scritti da Edward O. Wilson e Bert Hölldobler. Avrete sicuramente visto delle formiche marciare in fila, spedite come soldatini verso una fonte di cibo, magari su due file, una che va e una che viene. Ecco, accade la stessa cosa, ancora stigmergia: le formiche che trovano un succulento bagherozzo morto, nel tornare al nido a reclutare altre operaie, per ricordarsi la strada lasciano delle impronte di feromoni. Le sorelle, seguendo queste tracce, non possono sbagliare strada e più formiche passano per quella via e più il segnale feromonico si rafforza.
Idem le termiti: come fanno a costruire nidi di terra impastata alti quanto il Burj Khalifa? Perché ogni pallina è impregnata di feromone e questo porta una compagna a deporre lì la sua pallina, così una terza, quarta…
Leggendo il libro della Buoninconti, però, ho scoperto che pure gli gnu, nella loro straordinaria migrazione stagionale nel Serengeti, usano la stigmergia: negli zoccoli delle zampe anteriori hanno delle ghiandole odorifere che rilasciano un olio che ha la stessa funzione dei feromoni per api, formiche e termiti, cioè comunicare qualcosa ai conspecifici tramite una traccia ambientale. È così che gli gnu non si perdono nelle immense praterie africane.
Insomma, stigmergia: la strategia di Pollicino.